31/07/2015
Gli altri: Per Brividi d'estate, le storie di 'fantasmi' di Maurizio de Giovanni
Come un moderno Re Mida, qualsiasi cosa Maurizio de Giovanni tocchi in questo momento si trasforma incredibilmente in oro. È successo anche per “Gli Altri Fantasmi” (2012), una raccolta di tre storie pensata per il teatro, che proprio sottoforma di pièce teatrale, dal nome “Gli altri”, è stata messa in scena. Lo spettacolo ha avuto luogo il 28 e 29 luglio presso l’Orto Botanico nell’ambito della rassegna Brividi d’Estate de Il Pozzo e il Pendolo, appuntamento ormai divenuto un classico dell’estate napoletana. Sono stati tanti infatti gli spettatori e grande è stato l’entusiasmo per la presenza tra il pubblico di quello che attualmente è considerato uno dei più amati scrittori italiani, con tanto di orgoglio per i suoi concittadini napoletani.
Il cortile antistante il Museo dell’Orto Botanico, impreziosito dall’affascinante Orologio Solare, è stata la location naturale per la rappresentazione: un’atmosfera quasi senza tempo e senza spazio, il buio che avvolge gli spettatori, di tanto in tanto affievolito dal volo delle lucciole, la voce degli attori in scena che si interrompe necessariamente al passaggio degli aerei.
La regista Anna Maria Russo mette in scena le tre storie, come dicevamo, scritte da de Giovanni: Storia di Papo e Bimbomio, La casa è il mio regno, La canzone di Filomena. Il trait d’union tra queste è l’esistenza di un sottile confine tra la vita e la morte, tra il vero e l’immaginario, tra il terreno e il sopranaturale; i sentimenti umani appaiono sospesi in questo limbo, dove si mescolano relazioni, amore, dolore, sangue, violenza, pietà, speranza. Napoli, come di consueto negli scritti di de Giovanni, fa da sfondo: è la sua natura di città multi stratificata a consentirlo, come se ogni strada, ogni vicolo, ogni muro, perfino ogni pietra sia in grado di raccontare una storia, di testimoniare un evento più o meno lontano nel passato e che, con il suo essersi verificato, contribuisce a rendere viva la città, ad essere il sangue che scorre nelle sue vene, il suo motore pulsante, il suo volto più nascosto e misterioso ma, proprio per questo, più affascinante. Sono “anime” a raccontare le storie.
Fissi sul palco, Rosalba di Girolamo, in uno splendido abito nero, sulla destra (rispetto allo spettatore) e Rocco Zacanini a sinistra: la prima funge da voce narrante, oltre a “raccontare” la terza storia, il secondo regala allo spettacolo la lieve malinconia del suono della fisarmonica. La di Girolamo introduce la prima storia: le luci si abbassano e un faro illumina la scalinata che conduce al primo piano del Museo. Allo straordinario Paolo Cresta il compito di narrare la storia che, a nostro avviso, suscita le sensazioni più intense: è la lotta di un padre, “Papo” con il dolore disumano per la morte inaccettabile del suo bambino, “Bimbomio”. Più che una storia è un susseguirsi di immagini: la rievocazione dei giorni felici prima della scoperta della malattia, i dialoghi dolcissimi tra padre e figlio-resi con una voce registrata fuori campo-nella stanza d’ospedale, il dolore paralizzante della perdita, il vuoto, sino alla totale assenza di un umano sentire. Il dolore uccide e può trasformare un uomo in un fantasma: questo diventa “Papo”, un fantasma, invisibile agli occhi della folla, incapace di gridare il proprio dolore, un’ombra confusa tra la pioggia e il vento. “Ricorda. Ricorda tutto”. Sono le parole che ossessivamente gli ripete un uomo anziano con un cappello scuro, un uomo “invisibile” proprio come lui, che lo esorta a ricordare, a liberarsi dallo stato anestetico in cui la sofferenza lo ha condannato. L’uomo gli concede di passare dall’altra parte, è sufficiente un salto per raggiungere “Bimbomio”.
Nella seconda storia, “La casa è il mio regno” un pappagallo ascolta lo sfogo di una coppia: marito e moglie, affacciati ai balconi della loro casa, confessano al pennuto il loro personale disagio rispetto al rapporto coniugale, che ha tutto l’aspetto di un matrimonio senza amore, logorato dal tempo, dall’abitudine e da insuperabili differenze. La casa è il loro unico bene, il bene a cui sono saldamente legati, ciò che li unisce e che allo stesso tempo li divide: il luogo dove, agli occhi degli altri, sono una coppia amorevole ed ammirata. Il personaggio interpretato da Antonello Cossia è in realtà un marito avaro e scostante, dedito ai suoi riti casalinghi, che trovano pienezza nella preparazione meticolosa del caffè, quello interpretato da Elena Pasqualoni è una moglie dispettosa, che trascorre ore ad insaponarsi nella vasca da bagno e pur di irritare il marito acquista nei negozi a suo nome. Una coppia di eduardiana memoria insomma. Le luci, che illuminano i balconi del Museo da cui gli attori si cimentano nel dialogo amaro, si spengono: il pappagallo stava ascoltando le voci di due anime rimaste intrappolate in una casa “maledetta”, la casa in cui il marito, dopo aver affogato la moglie nella vasca da bagno, era rimasto avvelenato dalla stricnina che la moglie aveva mescolato nella macina del caffè. La casa era da allora rimasta invenduta.
La terza storia ha il sapore tipico della vicenda al confine tra spiritualità ed esoterismo, tra cristianità e paganesimo, di cui tanto i vicoli napoletani sono intrisi. Rosalba di Girolamo racconta “La Canzone di Filomena”, la storia di una ragazzina-Filomena per l’appunto-interpretata da Floriana Cangiano, che si esibisce in momenti canori della tradizione popolare napoletana. Filomena ha il menarca nello stesso giorno in cui la madre muore dissanguata mentre dà alla luce l’ultimo di una serie di figli, fratellini di cui la primogenita, povera e miserabile, dovrà prendersi cura: è il sangue l’elemento che accompagna la narrazione. Filomena si ritroverà insanguinata dopo la violenza che il padre, alcolizzato, le infligge, sullo stesso giaciglio che ha visto vittima la bella madre. Ma la ragazza non ha tempo di odiare: “l’odio è per i ricchi. E anche l’amore”. L’affidamento alla Madonna della Francesca davanti al quadro che la ritrae, nell’omonima chiesa dei Quartieri Spagnoli, le restituirà la vita, sottraendola a quella del padre, che improvvisamente incontra la morte, una bella donna, a cui Filomena assomiglia e alla quale Rosalba di Girolamo presta la voce.
Uno spettacolo, dunque, suddiviso idealmente in tre parti, una per ciascuna storia, che avrebbe giovato, a nostro avviso, di una regia più convinta, al fine di dare maggiore continuità ai tre “episodi”, al di là dei contenuti. Le storie scritte da de Giovanni hanno una forte impronta napoletana ma allo stesso tempo racchiudono in sé elementi non del tutto originali rispetto ad altri lavori-romanzi, film-dello stesso genere, anche di provenienza estera, anglosassone soprattutto. Il momento più vibrante della messa in scena è sicuramente la performance di Paolo Cresta, unico ad essere da solo in scena-probabilmente l’unico tra gli attori a poterlo fare-che emoziona senza eccessi e senza sbavature, confermando la sua capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore con un monologo intenso e di certo non breve; brava anche Rosalba di Girolamo. In conclusione uno spettacolo godibile, da cui ci aspettavamo senza dubbio di più.
Maria Marobbio
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