14/04/2015
Teatro: Scarrafunera – poemetto lurido/iastemma cantata: un insolito sguardo sull’umanità

È una riflessione intrisa di angoscia e disillusione sulla vita, è la metafora di qualsivoglia battaglia combattuta strenuamente, sino all’estremo anelito di vita, è soprattutto il tentativo individuale di uscire dalla propria tana, di liberarsi dal peso schiacciante del proprio ego. Tutto questo è, a mio parere, Scarrafunera, il “poemetto lurido” scritto e diretto dal giovane Cristian Izzo, andato in scena da venerdì 10 a domenica 12 aprile presso il Te.Co. Teatro di Contrabbando (Via Diocleziano 316). In scena, venerdì, il regista stesso ha eccezionalmente sostituito l’attore Luigi Credendino-impossibilitato ad essere sul palco per motivi di salute-che, insieme con Diego Sommaripa e Alessandro Langellotti, costituisce il trio di performers. Lo spettacolo, infatti, vede impegnati i tre attori in una vera e propria performance fisica, estremamente intensa-e se ne vedono interamente i segni al termine della rappresentazione-il cui ritmo, incalzante, segue quello del testo, registrato a tre voci dagli attori stessi. Dalle premesse risulta già chiaro che ci troviamo di fronte ad uno spettacolo di sicuro non convenzionale, almeno per quanto concerne la messa in scena: solo per una limitata ma intensa porzione dello spettacolo, la voce o meglio le grida dei protagonisti trovano espressione viva sul palco, accompagnandone i gesti densi di tensione.
Gli attori sono già presenti sul palco quando si entra in sala per prendere posto: sono seduti con le spalle rivolte al pubblico su tre cubi disposti al centro dello spazio e davanti a loro sono posti tre specchi. Un lenzuolo nero separa la scena dal musicista Salvatore Torregrossa, che accompagna con la sua musica dal vivo la rappresentazione, contribuendo senza dubbio alla capacità e alla forza dello spettacolo di restituire emozioni vivide, che si attaccano sulla pelle sempre più tenacemente via via che la rappresentazione si svolge e cresce d’intensità.
Per circa 30 minuti gli attori, disposti davanti al rispettivo specchio, guardano la propria immagine riflessa e in essa si scrutano, si cercano convulsamente, provando in tutti i modi a dar vita all’immagine di sé che vogliono vedere, che li appaghi. Indossano di volta in volta i più svariati abiti ed accessori, sovrapponendoli l’uno sull’altro, sino a dar vita a dei veri e propri mostri. Eppure l’immagine riflessa non è mai soddisfacente, il risultato non è mai all’altezza dell’aspettativa e del desiderio: i tre attori si svestono e si rivestono rabbiosamente sino all’atto estremo di possedere-letteralmente-la propria immagine, in un rapporto sessuale con lo specchio. È “l’amore” ossessivo per se stessi, è l’egocentrismo più esasperato, è la smania di essere qualcosa che non si è, che isola, che non rende consapevoli della presenza dell’altro-gli attori, infatti si ignorano sul palco-che schiaccia, che uccide. In scena, al contempo, risuonano le voci registrate degli attori, voci di scarafaggi intrappolati in una tana buia e lurida, una “scarrafunera”, dove la vita non è vita, dove la vita è fatta per morire. Parlano gli scarafaggi. Si lamentano, urlano, imprecano, maledicono le loro inutili vite, delle quali peraltro si fanno gioco per mezzo di un’amara e scostumata ironia. Improvvisamente la speranza di una luce, la decisione di tentare, insieme, di trovare una via d’uscita; lo spazio è troppo angusto, mancano aria e luce, la vita è un affanno, è un costante rimanere fermi pur muovendosi spasmodicamente. Evadere è l’unica possibilità. Si delinea così quella scarrafunera umana ed universale descritta da Salvatore di Giacomo, che in “ ‘O Funneco” scrive:“E sta ggente, nzevata e strellazzera/cresce sempe, e mo’ so’ mille e triciento/ Nun è nu vico; è na scarrafunera.
Ecco che, negli ultimi 15 minuti circa, i due “pezzi” dello spettacolo, il testo e la performance degli attori in scena, si congiungono; la rappresentazione raggiunge il suo acme nella straziante morte degli “scarafaggi”-rigorosamente con le zampe all’aria-morte ideale di qualsiasi essere umano, illuso da una speranza, che, nella sua ora finale grida il suo dolore con le stesse parole che Cristo crocifisso urla verso il cielo. Quella luce che gli scarafaggi avevano intravisto nient’altro era se non il consumarsi di una sigaretta gettata nella loro putrida tana. Agli scarafaggi, dopo la morte, non resta che fare un’ultima, drammatica, considerazione: l’umanità, vista dall’alto verso il basso, è essa stessa una triste ed anonima “scarrafunera”. Siamo sempre gli scarafaggi di qualcuno che ci guarda dall’alto.
Il disorientamento che inizialmente si prova confrontandosi con lo spettacolo, gradualmente scema per sentirsi sempre più in sintonia tanto con il testo registrato quanto con la performance attoriale, quest’ultima estremamente intensa. Inaspettatamente inoltre lo spettatore si ritrova lui stesso proiettato nello spettacolo quando, con gli attori sul pavimento nell’atto della morte, vede la propria immagine riflessa negli specchi: la “storia” non solo parla a lui ma potrebbe parlare anche di lui. “Scarrafunera” e il suo regista meritano un giudizio positivo soprattutto per come lo spettacolo è concepito e reso e per la bravura degli attori, ma sarebbe interessante senza dubbio assistere allo stesso in una versione completamente “live”, probabilmente meno originale ma, credo, ancora più vibrante.
Maria Marobbio

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