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10/03/2015

Teatro: Dalla morte nasce la vita 'Nel Campo delle Viole'

Teatro: Dalla morte nasce la vita 'Nel Campo delle Viole'

Vite spezzate, brutalmente interrotte nel corso della loro storia, da una criminalità violenta e disgustosa, che ha il nome di camorra. L’eco di quelle stesse vite, vittime innocenti di un male feroce, risuona in eterno in un campo di viole, perché “ciò che distrugge, muore e ciò che costruisce, vive in eterno”.

“Nel Campo delle Viole” è andato in scena al Teatro Di Sotto (Via Tasso 296) con numerose repliche e serate sold out, è vincitore del Premio Li Curti 2012 ed è stato insignito della menzione speciale all’edizione 2013 del Premio Landieri. Nonostante il grande successo di pubblico e critica, l’autore (insieme a Ivan Antonio Luigi Scherillo e Marianna Grillo) e regista dello spettacolo, Diego Sommaripa, non ha voluto presentare la sua opera prima nella versione originaria, ma ha voluto coraggiosamente apportare delle modifiche, solo in parte legate ad esigenze logistiche (lo spettacolo ha debuttato al Theatre de Poche nel maggio 2013), e piuttosto frutto della sua innata voglia di sperimentare e mettersi in gioco con nuove sfide.

E non manca una punta di orgoglio quando Sommaripa afferma di essere stato tra i primi, proprio in questo spettacolo, scritto nel 2012, ad avere utilizzato un linguaggio ed affrontato delle tematiche “filo-gomorriane”. Sicuramente lo splendido lavoro dell’autore e regista è supportato da un cast di tutto rispetto, del quale, tra l’altro, fanno parte (così come nella prima versione) due reduci proprio da “Gomorra - La Serie”: Salvatore Presutto e soprattutto Ivan Boragine, che, non a caso, rappresentano sul palco il fronte malavitoso.

“Nel Campo delle Viole” non può essere banalmente definito uno spettacolo teatrale che parla di vittime della camorra, ma è molto di più. Partendo infatti dal rispetto e dall’ammirazione per tre vittime innocenti, a rappresentanza di tutte le vittime della malavita organizzata, apre un vero e proprio squarcio su quella che è una delle realtà più scottanti della nostra quotidianità. Il punto di vista è duplice: da un lato le storie, che non possono non commuovere e scuotere profondamente, di Simonetta Lamberti, Antonio Landieri e Salvatore Nuvoletta; dall’altro i loro carnefici, assassini mandatari e materiali, non solo di vite umane, ma di valori ed ideali, quelli di una fetta di società che non si arrende, che continua a difendere la propria terra e la propria onestà, a dispetto della paura, delle minacce, del silenzio omertoso.

Le storie dei personaggi, quindi, si intrecciano idealmente, valicando il confine tra la vita e la morte, che prende la forma, sulla scena, di un led luminoso sul pavimento. Da un lato l’oscurità, la tenebra, le vite maledette di coloro che distruggono, che spargono sangue, che inquinano, che mortificano la vita in ogni modo possibile. C’è il politico corrotto (Boragine) che, in virtù del patrimonio consegnatogli dal padre e dei suoi studi di giurisprudenza, vive la sua personalissima “missione” di operare per la sua gente, da cui pretende, più che rispetto, amore incondizionato, adorazione; è assetato di potere, è disposto a tutto, tranne che a sporcarsi, affidando il compito più bieco, al suo braccio armato, Corrado, interpretato magnificamente da Presutto. Fedelissimo, quest’ultimo asseconda ogni volontà del suo “padrone”, è un figlio rispettoso, proveniente dalla strada, da quella realtà, la cui unica ragione d’essere sembra la violenza, fino al rinnegamento della vita stessa: un’infanzia trascorsa ad osservare pistole, rapine, prostituzione, violazione dell’infanzia, che diviene il motore più logico per scegliere di prenderne parte, per arricchirsi, per meritare rispetto.

Al limite “tra il male e il bene”, si colloca la figura della “donna” del malavitoso, interpretata con bravura e credibilità da Sara Saccone, che riesce nel difficile ruolo di dar vita ad una donna che ha consegnato l’anima al diavolo, a cui viene tolta ogni dignità, che agisce da schiava inerme e silente, terrorizzata, letteralmente paralizzata nel corpo e nello spirito, dal potere dell’uomo a cui ha scelto irrimediabilmente di legarsi. Sottomessa, accetta di essere calpestata. “Perché parli? Mi piaci quando stai zitta.” Vive consapevolmente la sua vita di dannazione ma è anch’ella vittima di qualcuno, qualcosa, più grande di lei ed ecco che appare come l’anello di congiunzione con il bene, con le vittime innocenti: Simonetta Lamberti (Claudia De Biase), Antonio Landieri (Paolo Gentile) e Salvatore Nuvoletta (Alessandro Palladino).

Incontratisi in una dimensione ultraterrena, decidono di riappropriarsi del bene più grande che la camorra ha tolto loro, le loro vite, “costruendo” sulle macerie qualcosa che possa non morire mai, che possa testimoniare la speranza di cambiare, che possa rendere il loro sacrificio non vano. Una bambina strappata al salto della corda, alle onde del mare, ai sogni e all’abbraccio dei genitori, che, impotente, ascolta le lacrime e lo strazio della madre. Un ragazzo disabile col sogno di essere rispettato ed amato, di sentirsi uguale agli altri, scambiato per spacciatore insieme ai suoi amici, che non è riuscito a scappare in tempo per la sua condizione e che muore colpito alla schiena.

Un giovane carabiniere, cresciuto nello stesso ambiente degradato di Corrado, con cui condivideva le partitelle di calcio, che ha scelto di schierarsi dall’altra parte, che ha speso la sua vita fino all’ultimo istante, per proteggere gli indifesi, per proteggere un bambino da una pallottola, morendo con orgoglio.

Rivivono le proprie vite e le rispettive morti sulla scena, arrivando al pubblico con un’intensità così forte da sentire un vero e proprio pugno nello stomaco, merito del testo, della regia mai scontata e sicuramente delle performance dei tre bravissimi attori, impegnati con monologhi e dialoghi nella dura prova di esprimere frammenti di vita, sentimenti ed inquietudini, così delicati, così meritevoli di rispetto. Nel limbo tra la vita e la morte i personaggi si incontrano. Le tre vittime non cedono al loro intento, non si lasciano intimidire e, nonostante i momenti di sconforto, rimangono uniti contro l’usurpatore e il suo scagnozzo, che lottano, inutilmente affinché la memoria sia spazzata via. Il messaggio è chiaro: un nemico comune si combatte insieme e, alla fine della battaglia, al termine della vita, tutto ciò che rimane è il bene per cui si è combattuto, l’esempio che si è lasciato, con la propria testimonianza di vita, che concima la terra affinché nasca nuova vita, affinché nascano le viole.

Non c’è un attimo in cui lo spettacolo non attiri magneticamente l’attenzione dello spettatore, nessun passaggio scontato, nessuna parola superflua, nessun movimento che non sia perfettamente incastrato nella scena corale. La storia è articolata in modo da non consentire alcuna distrazione, pena l’incompleta comprensione di ciò che accade sulla scena, laddove, in un’eterna lotta, il bene e il male si scambiano il ruolo di protagonista. Perfetto a questo fine è il gioco di luci. La scenografia è essenziale e pulita: ogni oggetto in scena ha una sua precisa funzione, nella storia o nella rappresentazione; nulla, anche in questo caso, è superfluo. Lo spettacolo è arricchito dalla malinconica musica di Marcello Cozzolino, che fa da colonna sonora ai monologhi di Claudia De Biase, la quale è protagonista di una performance intensa, complici proprio i frammenti canori, estremamente evocativi. Come la sua, ottime anche le interpretazioni di Paolo Gentile e Alessandro Palladino.

Non possiamo non sottolineare la prova artistica di Ivan Boragine, che mette la sua ormai consolidata tecnica a disposizione di una profonda lettura personale, raggiungendo il risultato di una realistica interpretazione del personaggio. Appare freddo e spietato calcolatore, ma allo stesso tempo estremamente complesso nelle sue molteplici sfaccettature: arroganza, perfidia, crudeltà, bassezza morale, ambizione, vanità. Boragine è il protagonista della forte scena finale, nella quale il politico, schiavo di sé, vive il terrore e l’angoscia delle sue ultime ore e più, che della condanna umana, di quella eterna. Il plauso finale va a Diego Sommaripa, per l’altissima qualità di uno spettacolo che speriamo, un giorno, di vedere rappresentato a livello nazionale, ritenendo che, al di là dell’indiscusso valore artistico, possa avere anche un ruolo sociale: guardare diversamente ad una realtà che fa paura e che troppo spesso è misconosciuta, nella quale non sia dato solo risalto ai carnefici ma anche, doverosamente, alle vittime.

Maria Marobbio

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