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12/12/2014

Teatro: 'Piccolo e squallido carillon metropolitano', applausi e consensi per Davide Sacco

Teatro: 'Piccolo e squallido carillon metropolitano', applausi e consensi per Davide Sacco

Piccolo e squallido carillon metropolitano, scritto e diretto dal giovanissimo e talentuoso Davide Sacco, è andato in scena il 9 e 10 dicembre presso il Nuovo Teatro Sancarluccio, nell’ambito della rassegna teatrale “Anche le formiche nel loro piccolo….crescono”, registrando numerose presenze, ma soprattutto applausi e consensi.

C’era da aspettarselo visto che, alla presentazione dello stesso, nell’edizione 2013 de “La corte della formica” lo spettacolo aveva portato a casa due premi, “Migliore Attore” (Orazio Cerino) e “Migliore Scenografia”(Luigi Sacco). E non possiamo che trovarci assolutamente d’accordo. Dopo il successo in “Condannato a morte. The Punk version”, in cui abbiamo ammirato l’ eclettico Orazio Cerino padroneggiare con grande talento il palco, ora lo stesso Cerino interpreta con grande disinvoltura e convinzione il personaggio di Mimma, a nostro parere il più intenso dei tre in scena. Compagni di avventura di Cerino: Eva Sabelli, nel ruolo di Mimì e Giovanni Merano, che interpreta Ettore.    

Una scenografia essenziale con pochi elementi scenici(vasi di fiori, delle sedie, una valigia, un paio di scarpe rosse dal tacco vertiginoso) aiuta lo spettatore a concentrarsi sulle parole, le vere e proprie protagoniste dello spettacolo, il cui ritmo suona talora più pacato, talora più rapido fino a divenire a tratti convulso, in un clima di grande impatto emotivo, soprattutto quando il testo è affidato alla voce e all’interpretazione di Cerino(foto).

Ciascuno dei tre attori occupa, come un burattino, di spalle, uno spazio ben definito, quasi una nicchia, in fondo al palco, abbandonandola per cimentarsi di volta in volta in dialoghi e monologhi di fronte al pubblico. 

Mimma, Ettore e Mimì sono tre fratelli, che, dopo aver perso anni orsono il padre, si ritrovano orfani, per la recente morte della madre, al termine di una lunga malattia. I tre sono gli sfortunati eredi di una travagliata e precaria vita familiare, vissuta nella “periferia”, ai margini del mondo, preda della cattiveria, dell’arroganza, del giudizio, delle maldicenze di uomini, donne e bambini, pronti a condannare, senza un briciolo di comprensione né di pietà per quelli che sono semplicemente dei loro simili. Persone che cercano di portare avanti, come tutti del resto, la propria vita al meglio delle loro possibilità. La “piccola” Mimì, la ballerina dello squallido carillon, è una trentenne, affetta da un indefinito disturbo mentale, che la condanna ad una vita perennemente infantile, completamente dipendente dalle cure, prima materne e poi di quello che lei stessa, nella sua semplicità, chiama “ fratello ricchione” (Mimma).

È insistente, piagnucola finché non ottiene ciò che vuole, ha come amico un pesciolino rosso, che porta sempre con sé in una boccia di vetro, stringendola fra le mani, come segno della sua unica certezza, del senso di appartenenza a qualcosa, della sua capacità, nel suo piccolo, di prendersi cura di un altro essere. Eppure Mimì comprende, a suo modo, con la sua sensibilità di “bambina”, quello che gli adulti dicono, è in grado di tracciare il filo della storia della sua famiglia, di capire il senso delle azioni, di maturare una propria idea della vita, in cui l’amore per la madre e per i fratelli occupano il primo posto. È proprio Mimì a cercare di ricucire lo strappo tra i fratelli, Mimma ed Ettore.

Mimma è un transessuale, ripudiato dalla società e dallo stesso fratello Ettore, che disdegna perfino di toccarlo. Ha speso la sua vita a lavorare, a prendersi cura dei familiari, da sola, una donna prigioniera nel corpo di un uomo, schernita per il suo stesso essere, per un’identità che persino il padre, come spesso accade nella realtà, ha rifiutato. La sua solitudine ed il suo dolore suscitano una grande tenerezza, eppure Mimma splende nel suo orgoglio, nel suo coraggio, nella fatica quotidiana e nell’amore solido ed incondizionato per un uomo, l’uomo con cui sogna un giorno di condividere la propria vita.

Ettore, infine, è il “fratello sconosciuto”, il fratello che ha tentato la strada della fuga, dell’allontanamento dalla vita familiare e da una realtà invivibile, unica speranza di sopravvivere. Infatti, egli sopravvive, ma non vive. Non accetta se stesso, né gli altri, ha perso ogni sogno, non ha riferimenti, sono presenti in lui i fantasmi di un passato che ha inutilmente tentato di nascondere e sotterrare, ma che, come un boomerang, sono tornati più violenti di prima, i disagi familiari, gli scherni subiti nella periferia, le aspettative paterne.

Ricevuta una lettera dalla madre, prima di aggravarsi(scritta in realtà da Mimma), decide di ritornare in famiglia per prendersi cura della sorella: questa l’occasione che dà la possibilità ai tre fratelli di confrontarsi e ai tre bravissimi attori di portare in scena tre storie di vita, di fallimenti e soprattutto di solitudine. Vite il cui ritmo, come quello di tante nostre vite, è scandito da un triste carillon. Briciole di bellezza illuminano pallidamente le vite buie tanto di Mimì quanto di Mimma, che iniziano i rispettivi monologhi, affermando di voler tracciare una linea, a separazione delle cose belle e di quelle brutte della vita.

Quella stessa linea, Ettore non è intenzionato a tracciarla. Nella sua vita forse non c’è nulla da salvare o più probabilmente egli non riesce più a cogliere in nulla la bellezza. Ed è proprio il monologo finale di Ettore a racchiudere il senso dello spettacolo. Gli uomini sono soli, ciascuno “al riparo” dalla vita nella propria boccia di vetro, e, per quanto tentino di avvicinarsi, non possono mai essere abbastanza vicini da toccarsi. Numerosi sono, quindi, gli spunti che offre lo spettacolo di Sacco: la “diversità”, tanto nella malattia mentale, quanto nell’orientamento sessuale, l’invivibilità in un mondo che si fonda sul giudizio, le ferite familiari che, ciascuno a suo modo, porta vive sulla carne. Rattrista profondamente l’assenza di una qualsivoglia forma di speranza che culmina nell’ineluttabilità della solitudine umana.

Maria Marobbio

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